martedì 1 gennaio 2013

La valenza esistenziale delle scuffiate

Il Velista Mascherato si volta a guardare quanto è lontano dal porto e scopre così due cose importanti: a) il collare in gomma della muta stagna è ancora troppo stretto, deve tagliarne un altro pezzettino; b) deve rientrare.
Non ne ha voglia, ma non può fare altrimenti: ha detto a Stefano - il Presidente (e chef) del Circolo Pescatori Sportivi - che sarebbe tornato in porto per l'una e mezza e, se il vento cala ancora un po', non solo rischia di non fare in tempo, ma, anzi, è piuttosto probabile che rimanga fermo in mezzo al mare. Non vuole cominciare l'anno rientrando a forza di braccia, così, abbatte e comincia il lungo bordo di poppa che lo riporterà indietro.

Il brutto dei bordi di poppa, con poco vento e poca onda, è che, dopo un po', la mente tende a divagare.
La mente del Velista Mascherato tende a divagare comunque, anche con vento forte e onda formata, ma questo non ha grossa importanza; fatto sta che, dopo aver lascato tutto il lascabile e aver deciso che l'andatura migliore è una leggera strapoggia mure a dritta, il nostro eroe si ritrova a dover fare i conti con quei pensieri che sperava di aver lasciato sullo scivolo del porto.

In meno di tre mesi, la barca della sua vita è scuffiata per ben quattro volte, con esiti disastrosi. Ogni volta, il nostro eroe ha cercato di rimetterla dritta, di sgottare via l'acqua che minacciava di farla affondare, ma ogni volta un'onda più forte delle precedenti l'ha rimandato a bagno nell'acqua gelata e lui, a questo punto, ha esaurito le forze.
Come tutti i laseristi, il nostro eroe è abituato a scuffiare e, anzi, sa bene che le scuffiate hanno una loro valenza esistenziale, perché ti ricordano che non sei perfetto; che, per quanto tu possa aver imparato a gestire la tua barca, non potrai mai riuscire a gestire le onde, o il vento.
E alle onde e al vento non gliene frega niente che tu hai un tuo blog di vela o che hai una pagina su Facebook; non li impressiona mica: se vogliono mandarti in acqua, ti ci mandano.
Ciò che addolora il nostro eroe è che la sua "barca" sta affondando senza alcuna ragione apparente; e, quel che è peggio, sta affondando appena fuori dal porto a cui, faticosamente, la stava riportando.

Il freddo ai piedi lo riporta alla realtà.
Abbatte, un po' per provare la manovra, un po' per cambiare posizione, in modo da non sforzare troppo il ginocchio che sta lentamente riprendendosi. Quando è sulle nuove mura, si guarda i piedi e pensa che i suoi scarponcini da vela sono durati più del suo matrimonio.
Soldi ben spesi.

Guarda il video HD su Vimeo

sabato 29 settembre 2012

Roses 2012 - Il viaggio di andata

Il nostro eroe ha partecipato all' European Laser Masters Championship a Roses, in Spagna..

Guarda il video HD su Vimeo

giovedì 27 settembre 2012

Perdere l'orientamento (sessuale)

La chiave di tutto è la frase riportata nel post precedente:
Se la maggior parte delle barche moderne ha il gennaker, ci sarà un motivo..
Il gennaker è una vela veloce, divertente, facile da utilizzare, ma incompleta. Avendo bisogno di un flusso laminare, ha un raggio di utilizzo limitato: in linea di massima, dagli 80° del traverso ai 120/130° del gran lasco.
All'interno di questi 50°, il rendimento della vela varia sensibilmente a seconda delle sue dimensioni: alle andature più poggiate, un gennaker con la base larga sarà investito dalla scia della randa; alle andature più vicine al traverso avverrà il contrario, con il flusso del gennaker che disturba la randa.
Per evitare questo inconveniente o si riduce la base della vela, riducendone proporzionalmente la superficie, o si allontana il punto di mura dall'albero, alterando il centro di spinta e quindi l'equilibrio della barca.
In altre parole, il gennaker perfetto dovrebbe essere una vela-Barbapà in cui il volume si sposti verso l'alto a mano a mano che si poggia.
E anche se si riuscisse a produrre un simile prodigio, se la barca non avesse un bompresso si dovrebbe murare il gennaker sul tangone, annullando quella facilità di utilizzo che è la unique selling proposition del gennaker.

Un po' la stessa cosa che avviene con la grande innovazione di questo inizio di secolo, i cosiddetti: smart-phone.
Figli dell'unione peccaminosa di un telefono e di un computer, hanno ereditato i geni peggiori di entrambi i genitori: come telefoni sono fragili, scomodi da usare, hanno una pessima ricezione e devono essere ri-caricati con la stessa frequenza dei peggiori Motorola degli anni '90; come computer sono scomodi per scrivere, sono difficili da leggere ed espongono i nostri dati personali a rischi che pensavamo di esserci lasciati alle spalle da almeno un lustro.
Malgrado ciò, e malgrado il loro prezzo esorbitante vada a braccetto con una rapidissima obsolescenza, ormai quasi tutti ne hanno uno, al punto che c'è chi fa l' "esperimento" di vivere un mese senza.

Quella in cui viviamo è inequivocabilmente l'Era dell'Ibrido: siamo circondati da oggetti grazie ai quali compiamo le stesse operazioni che, fino a qualche tempo fa, richiedevano due strumenti diversi. Uniamo un computer con un telefono e otteniamo uno smartphone; uniamo un fuoristrada con una berlina e otteniamo un SUV; uniamo uno spinnaker con un genoa e otteniamo un gennaker.
Ciò che potremo fare - male - con questi bastardi (nel senso patronimico del termine) lo avremmo potuto fare - bene - con i loro genitori, ma sarebbe stato più complicato e questo è un aggettivo che il terzo millennio aborrisce.

"Perché", pensa il Velista del Terzo Millennio, "dovrei perdere tempo con tangone, braccio, scotta, carica-alto e carica-basso, se posso, molto più facilmente, aprire un gennaker?" Non potrò andare in poppa piena? chi se ne frega: con due bordi al gran lasco arriverò nello stesso punto; magari anche prima.
Non ha mica tutti i torti, il Velista del Terzo Millennio, ma siccome la vela (come la vita) è un gioco di equilibrii, per avere una barca capace di planare alle andature portanti, oltre alla poppa piena dovrà rinunciare anche alla bolina stretta. In termini strettamente numerici, il Velista del Terzo Millennio, preferisce sacrificare più di un terzo del raggio di utilizzo della sua barca (45+45 gradi in poppa, più 10+10 gradi in bolina) perché non vuole complicarsi la vita con uno spinnaker.
È per questo motivo, che l'ho chiamato "velista" e non "marinaio".

E per coloro che sono stati così pazienti da leggere fin qui, veniamo adesso alla questione dell'orientamento sessuale.

Di tutti gli omosessuali che conosco, solo uno è così da sempre; tutti gli altri lo sono diventati o per questioni di comodo ("A Milano, se sei gay, è più facile trovare lavoro") o perché si erano dimostrati incapaci di gestire una o più relazioni etero. Come il Velista del Terzo Millennio, hanno preferito un "raggio di utilizzo" ridotto alla fatica di andare a prua a combattere con il tangone (nessun doppio senso implicito, mi spiace). Sono scelte legittime; ciascuno di noi ha il diritto di definire le proprie priorità e gli altri hanno il dovere di rispettare queste decisioni, se il metterle in pratica non causa danno a terzi: meglio un velista che dà spinnaker di uno che accende di nascosto il motore.
D'altro canto, però, ciascuno di noi ha il diritto di scegliere i termini con cui definisce le entità che lo circondano, se questo non causa danno o, pure, offesa ad alcuno.

E io, mi rifiuto di chiamarli: "marinai".

mercoledì 26 settembre 2012

Spinnaker, gennaker e orientamento sessuale

Quando, alla sua prima uscita, lo spinnaker originale del CAT 38 si disintegrò, fu un evento del tutto inatteso, dacché la suddetta vela era pressocché nuova (la veleria che l'aveva prodotta chiuse nel 1989) e conservata con cura maniacale (era riposta, giuncata, nella sua sacca da almeno da due anni).
Trovare un'altra vela fu facile: Carlo, l'amico che era al timone in quel momento, ha una collezione di spinnaker e, generosamente, me ne donò uno; dificile fu decidere cosa fare di quello spi: se limitarsi a ridurlo (la barca di Carlo è un X412) o se trasformarlo in un gennaker.

La cosa buona dell'avere la barca in un circolo velico che è anche un cantiere è che, quando hai un problema tecnico, non devi perdere tempo sui forum, o scrivere alla rubrica "Ask the expert" di Practical Boat Owner: l'esperto ce l'hai lì, a disposizone; gli offri un caffè o una birra e lui ti dice cosa devi fare. La cosa cattiva, dell'avere la barca in un circolo velico che è anche un cantiere è che non sempre gli esperti sono concordi su quale sia la soluzione migliore.

Stefano, l'amico "alberaro" (prferisco il termine gergale a quello anglofilo, ché: "rigging" ha una spiacevole assonanza con: "rimming") che tormento abitualmente con le mie più assurde ipotesi armatoriali (tipo: "E se al posto dei bozzelli mettessi dei giroscopî?"), mi suggerì di lasciar peredere lo spinnaker e di passare al gennaker.
Le sue argomentazioni erano innecepibili: rispetto allo spinnaker, il gennaker è più facile da gestire; lo puoi dare anche se sei da solo o con tua moglie e anche se non puoi usarlo in poppa piena, visto che non fai regate, che te ne frega?
- Del resto, - concluse. - Se la maggior parte delle barche moderne ha il gennaker, ci sarà un motivo..

Il secondo parere che raccolsi fu quello di Sergio, che, pur ammettendo la superiorità dello spinnaker, mi consigliò il gennaker, per gli stessi motivi addotti da Stefano.
Riguardo la possibilità di dare spinnaker da soli, a parte la complessità dell'operazione in sé ("A me, non mi va più di faticare.."), mi insegnò una cosa che mi sarebbe tornata utile in seguito:
- Quando dai lo spinnaker da solo, il vento non è mai troppo forte: cinque, dieci nodi al massimo. Se si mantiene così, non c'è problema, ma se invece aumenta, è possibile che tu non te ne accorga fino a che non è troppo tardi. Senti la barca che accelera, ma non ti accorgi del fatto che il vento sta aumentando perché vai nella sua stessa direzione. A un certo punto, però, ti volti e dietro di te vedi tutte creste bianche. E lì, sono cazzi..

Con il gennaker in vantaggio di due a zero, andai in pellegrinaggio dal terzo oracolo: Marco, proprietario di un Carter 39 e amante della navigazione in solitario.
Il parere che mi diede aveva un che di feticista, ma si rivelò risolutivo:
- L'importante è la calza, - mi disse. - Con la calza, lo spinnaker lo apri e lo chiudi anche da solo. È un po' complicato, ma si può fare. Devi solo ricordarti di passare la scotta che abbassa la calza sotto a una delle bitte, se no, rischi che una ventata ti si porti via.

Era esattamente quello che volevo sentirmi dire: incurante del fatto che il punteggio fosse di 2 a 1 a favore del gennaker, andai dal velajo e mi accordai per la riduzione e la calza. Quando gli raccontai dei diversi pareri ricevuti, Alberto riportò il punteggio in partità con la frase:
- Il gennaker è una vela di merda [sic]. Io ne ho avuto uno, anni fa, per provare, ma dopo un paio di uscite non l'ho più utilizzato.

A due stagioni di distanza, posso dire con buona certezza che avevano ragione tutti quanti: il gennaker è una vela più facile da utilizzare, ma sono comunque contento di avere uno spinnaker, se non altro perché, mentre lo spinnaker lo posso utiizzare come un gennaker, il gennaker non lo potrei utilizzare come uno spi.
È un po' come la differenza fra la porta e la valgia: la valigia si porta, ma la porta non si valigia.

Dice: Sì, d'accordo, ma tutto questo, cosa c'entra con l'orientamento sessuale?
C'entra, c'entra: adesso vi spiego..

(continua..)

lunedì 17 settembre 2012

Conseguenze dell'assunzione di alcolici sulla conduzione di imbarcazioni a vela


Codice della navigazione
(Approvato con R.D. 30 marzo 1942, n. 327)
Parte aggiornata alla legge 24 novembre 1981, n. 689
Art. 1120 - Ubriachezza
Il comandante della nave, del galleggiante o dell’aeromobile ovvero il pilota dell’aeromobile, che si trova in tale stato di ubriachezza, non derivata da caso fortuito o da forza maggiore, da escludere o menomare la sua capacità al comando o al pilotaggio, è punito con la reclusione da sei mesi ad un anno.

Leggendo questo articolo del Codice della Navigazione, si può pensare che condurre un'imbarcazione in stato di ebrezza sia, tutto sommato, un peccato veniale - posto, ovviamente, che tu non abbia bevuto con il preciso e dichiarato intento di ubriacarti.
In altre parole, se sei ciucco come un'oca per un caso fortuito (p.es. perché la forza di gravità continuava a far cadere nel tuo stomaco la Vodka che tu poggiavi in bocca) o per cause di forza maggiore (p.es. Il comandante in seconda ha detto davanti a tutti gli ufficiali che riesce a bere più B52 di te e allora, per evitare un ammutinamento, sei stato costretto a dimostrare che si sbagliava), puoi pure affondare un peschereccio, tanto, nessuno ti dirà niente.

Lungi da me l'intento di denigrare quanto stabilito dal Legislatore, vorrei precisare che quanto sopra può essere valido (forse) per il comandante di un incrociatore, di una petroliera, di un traghetto o, comunque, di una qualsiasi imbarcazione di grosse dimensioni, realizzata in metallo; laddove si navighi in solitario su un'imbarcazione in vetroresina di trentotto piedi, bere in maniera eccessiva è SBAGLIATO. Ve lo può confermare il Velista Mascherato, che, quest'oggi, ha potuto esperire in prima persona la veridicità di tale affermazione.

Intendiamoci: il nostro eroe, pur essendo tutt'altro che astemio, è, da sempre, contrario all'assunzione di alcolici durante la navigazione. Anche se non concepisce l'ipotesi di un'uscita in barca che non termini con una birretta al tramonto, non permette né a sé né a nessuno del suo equipaggio di bere alcolici prima che siano completate le operazioni di ormeggio. Oggi, però, per almeno due motivi di forza maggiore (ovvero, indipendenti dalla sua volontà), ha portato a bordo una bottiglia di Franciacorta, bevendone circa la metà.
Volendo, potremmo addurre a sua discolpa anche la seconda circostanza attenuante prevista dal nostro benevolo Codice, dacché, per un caso fortuito (il lunedì, le pescherie sono chiuse perché la domenica i pescherecci non escono in mare), non aveva trovato le ostriche che si era promesso per pranzo e si era dovuto accontentare di qualche craker con sopra delle uova di lompo - un alimento non sufficiente ad assorbire l'alcol nel suo stomaco - ma rimane il fatto che bere è stata una cazzata, e non nell'accezione velistica del termine.

Il primo problema che sorge successivamente all'assunzione di alcolici durante la navigazione è subdolo e quasi impercettibile, ma potenzialmente letale: si perde cognizione dell'utilità della virata. Lo stato di benessere conseguente all'irrorazione alcolica della corteccia cerebrale spinge il Velista Ebbro a ragionare nei termini della nota canzone di Orietta Berti: Finché la barca va, lasciala andare.
"Sì, d'accordo," pensa il Velista Ebbro. "Sto procedendo a cinque nodi su rotta 220° e sono circa a dieci miglia dalla costa, ma sto tanto bene! perché dovrei affaticarmi a virare? Fra centocinquanta miglia c'è la Sardegna e anche se la lisciassi, sono comunque all'interno di un mare chiuso: male che vada, finirò in Algeria o a Sidi Bou Said.."

Se l'assunzione alcolica continua oltre questo primo stadio, la situazione si complica, perché il Velista Ebbro perde di coordinamento e di lucidità: riesce ancora a governare la barca (la reazione alle fluttuazioni dei filetti del genoa è, per lui, un automatismo), ma non riesce a fare altro. O meglio: ha paura di fare qualsiasi altra cosa. Quella stessa, sottile, paranoja che fa di lui un buon marinaio e che lo porta a valutare in anticipo tutte le possibili conseguenze di una determinata situazione, si trasforma adesso in terrore puro e lo attanaglia: ha paura di scendere sotto coperta a farsi un caffè perché non è sicuro di riuscire a scendere dalla scaletta; ha paura di andare in pozzetto a virare perché teme di cadere a mare o di stritolarsi le dita fra la scotta e il winch.. insomma: ha paura di tutto.
È solo, su una barca in balia degli elementi e ha come equipaggio un completo imbecille: sé stesso.

Come se non bastasse, negli strati più profondi del suo cervello, là dove nemmeno l'alcol riesce ad arrivare, una parte di lui si rende conto di quanto sta succedendo, ma non riesce a porvi rimedio. Il Velista Ebbro sa di essere a malapena in condizione di gestire l'ordinaria amministrazione (conduzione del natante), ma è conscio anche del fatto che non sarà minimamente in condizione di gestire una qualsivoglia emergenza, per quanto risibile. Se il vento sale ancora un po', o se succede una qualsiasi cosa alla vela di prua, per lui sarà la fine, perché non è in condizione di arrivare incolume oltre l'albero.

Non potendo togliere vela e rientrare al circolo a motore, (perché, anche ammettendo che riesca a mettere i parabordi e a centrare la foce del Tevere, poi dovrà ormeggiare nella darsena, in mezzo a tutte le altre barche..), la sua unica speranza di salvezza è di mettersi al Gran Lasco (barca piatta, onde al giardinetto) e di scendere sotto coperta a farsi un caffé, un'operazione che, in condizioni normali, porterebbe a termine in pochi minuti, ma che adesso gli appare insormontabile, se non altro perché non gli è chiaro quale sia, l'andatura di Gran Lasco..

Il fatto che io sia qui ora a raccontarvi queste cose e che questo post non abbia intorno una cornice nera, come i necrologi, non vuol dire che esiste comunque una possibilità di salvarsi da simili situazioni, ma solo che oggi, al nostro eroe, ha detto culo.
Non è una cosa su cui si possa fare affidamento.

martedì 4 settembre 2012

Velista Mascherato Begins

Quando entriamo nella hall dell'albergo, il ragazzo dietro al banco dell'accettazione ci guarda con una diffidenza che nemmeno la sua compostezza professionale riesce a nascondere del tutto. Un po' come nei film, quando la banda di Hell's Angels sporchi e cattivi entra nella tavola calda della stazione di servizio nel deserto e il tipo dietro il bancone non sa cosa fare; percepisce il pericolo incombente, ma teme che reagire potrebbe peggiorare le cose.

Comunque, quando entriamo nella hall dell'albergo, è già finito tutto; siamo stanchi, sporchi e avviliti. Sporchi magari nemmeno tanto, ma non sono proprio certo che profumiamo: quasi tre giorni che siamo in mare, e l'acqua l'abbiamo usata solo per bere. La pioggia, e ne abbiamo presa tanta, è scivolata via sulle nostre cerate, non è passata sotto: sono cerate buone, costose. Io ho i pantaloni zuppi, ma solo perché quando siamo arrivati in porto sono uscito fuori senza mettermi la salopette: sembrava che stesse smettendo; quando mi sono reso conto che non avrebbe smesso, era troppo tardi per correre ai ripari. Chi se ne frega: tutto quello che voglio, adesso, è una doccia calda, qualcosa da mangiare e un letto. E io sono uno di quelli che si è stancato di meno.

Poggiamo le nostre sacche in un angolo e ci avviciniamo al bancone. Qualcuno dice al portiere che abbiamo bisogno di dormire, che siamo in otto; il ragazzo chiede se abbiamo una prenotazione. Tropea, martedì 21 aprile, piove che Dio la manda, e lui ci chiede se abbiamo prenotato.. Ci guardiamo l'un l'altro, perplessi: probabilmente sì, non lo sappiamo: se n'è occupato Massimo che è del posto, ma Massimo è ancora fuori, che si accorda con i nostri accompagnatori per domani mattina. Gli diciamo un paio di cognomi, per prova, ma inutilmente. È chiaro che non ci sono problemi di posto, ed è altrettanto chiaro che, appena arriveranno Massimo e/o Maurizio, che hanno l'accento locale, noi otterremo le nostre stanze, ma sentirsi rifiutati così, aprioristicamente, solo sulla base del nostro aspetto e delle nostre emanazioni olfattive è svilente.

- Siete venuti in moto?, chiede il giovane, indicando le nostre borse nere.
- In barca, rispondiamo noi.
Il ragazzo ci fissa per un attimo, incredulo; poi:
- No, seriamente: come siete arrivati?

Era, per noi, la fine della Roma X Tutti 2009: dopo una notte passata a rincorrere Ikarus, la nostra randa in 3DL, sull'ennesima strambata, si era aperta come un pacchetto di crakers, costringendoci al ritiro a poche miglia dal passaggio di Stromboli. L'umore dell'equipaggio non era certo alle stelle, ma il mio in particolare era decisamente plumbeo: avevo passato le ultime dieci ore sdraiato sottocoperta, in preda a un violento attacco di mal di mare, mentre il resto dell'equipaggio - quelli bravi, quelli capaci - se ne stava in pozzetto a combattere con lo spi, le onde e la pioggia.
Nessuno mi aveva detto niente, ma io mi sentivo di schifo lo stesso: avevo ottenuto quell'imbarco grazie all'amicizia con Marzio e mi ero illuso che potesse essere l'occasione per cominciare a regatare con dei semi-professionisti, ma il mio sistema nervoso simpatico aveva mandato tutto a puttane.
Simpatico un par di palle..

Sì, d'accordo: io soffrivo di mal di mare solo il primo giorno, poi, com'era successo durante il trasferimento di Terramia da Gibilterra alle Canarie, mi passava tutto e potevo stare sotto coperta con onde di due metri a fumare il Toscano e fare le parole crociate, ma se proprio in quel primo giorno c'era da fare, ero inutile, ingombrante e, potenzialmente, dannoso. Non si poteva fare.
L'unica soluzione era di riuscire ad andare in mare più spesso: una, massimo due regate al mese non erano sufficienti. Dovevo trovare il modo di andare in acqua almeno una volta a settimana e, soprattutto, dovevo ricominciare da zero, con umiltà e dedizione; dimenticarmi quei nove anni passati sui cabinati e tornare a scuola sulle derive.

Probabilmente, avrei dovuto anche imparare a timonare.

venerdì 18 maggio 2012

Navigatore tressette (prodromi)

È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che m'accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell'anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto.

Herman Melville - Moby Dick